ISPI – Verso una nuova Bretton Woods?

Luca Fantacci, 23 maggio 2022

Gli accordi di Bretton Woods. Discorso pronunciato all’Assemblea Costituente nella seduta del 14 marzo 1947

Janet Yellen, segretaria al Tesoro USA e già governatrice della FED, in un recente discorso all’Atlantic Council ha ricordato la conferenza di Bretton Woods, citando il discorso inaugurale di Roosevelt: “È giusto che, mentre la guerra di liberazione è al suo culmine, ci riuniamo per definire assieme la forma del futuro che dobbiamo conquistare”. Era il luglio del 1944 e, mentre ancora infuriavano i combattimenti della Seconda guerra mondiale, nella località montana del New Hampshire si tenne sotto l’egida degli Alleati una conferenza per disegnare un nuovo ordine economico internazionale capace di promuovere la prosperità e la pace – e perciò di infondere motivazione e speranza a combattenti e popolazioni allo stremo. Una rievocazione quanto mai opportuna in un momento in cui ritorna lo spettro di un conflitto planetario.

“Dunque lei sta invocando una nuova Bretton Woods”, ha subito rilanciato la moderatrice, l’editorialista del Financial Times, Rana Foroohar. Quasi spaventata dall’imparità del suo stesso confronto, la segretaria Yellen ha subito abbassato il tiro, osservando che Bretton Woods creò “un eccellente set di istituzioni”, che queste ultime hanno fatto un buon lavoro nel promuovere la crescita degli scambi e degli investimenti globali e che, insomma, non si tratta oggi di riformare l’architettura monetaria internazionale, ma soltanto di renderla più adatta ad affrontare le sfide del presente.

Oggi come ieri: sfide simili

Peccato. Perché, dopo quasi ottant’anni, le sfide di oggi sono le stesse di allora. E in larga parte proprio a causa degli accordi di Bretton Woods, dei loro difetti intrinseci e del modo in cui sono stati successivamente interpretati, applicati e modificati. Sarebbe ora di riconoscere che le istituzioni di Bretton Woods hanno mancato il loro compito principale, che era quello fissato nella Carta Atlantica siglata da Roosevelt e Churchill già nell’agosto del 1941: “far sì che tutti i Paesi, grandi e piccoli, vincitori e vinti, abbiano accesso, in condizioni di parità, ai commerci e alle materie prime mondiali necessarie alla loro prosperità economica”.

Proprio al fine di promuovere un commercio globale libero ed equo, a cui ogni Paese potesse partecipare in ragione del proprio vantaggio comparato, evitando al contempo la formazione di squilibri finanziari persistenti, gli accordi di Bretton Woods affidarono al Fondo Monetario Internazionale il compito di finanziare deficit temporanei, ma anche “di ridurre la durata e il grado di squilibrio delle bilance dei pagamenti internazionali dei membri” (Art. I, vi).

Ora, se dovessimo misurare oggi le performance del Fondo sulla base della sua capacità di assolvere a tali funzioni originarie, dovremmo concludere che ha fallito miseramente. Fin dall’inizio, infatti, si sono accumulati squilibri commerciali strutturali che hanno spaccato il mondo fra Paesi in surplus e Paesi in deficit. Gli sbilanci di parte corrente sono aumentati fino alla crisi finanziaria globale del 2008, quando hanno superato complessivamente il 2,5% del Pil globale, per poi diminuire, ma assestandosi comunque sopra all’1%: i principali surplus sono in Cina, nei Paesi mediorientali esportatori di petrolio e sempre più in Europa, mentre il più ampio e persistente deficit è quello degli Stati Uniti (Figura 1).

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